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Bruno Russo- [ EVENTI ] VOLA E VA ( da "Il ROMA" del 26/02/2011 pag. 11 )
VOLA E VA’ CON GAETANO CERRITO Gaetano Cerrito è il guidatore di una macchina speciale, che corre sulle strade a percorrenza limitata che conducono a...
[ EVENTI ] QUANDO LA POESIA E’INCONTRO DI CULTURA E SOLIDARIETA’ ( da "Il ROMA" DEL 12/01/2011 pag. 12 ).
Cosa c’entra la poesia e le nuvole, con un condimento particolare come l’aglio? Ce l’ha spiegato il poeta italo-argentino Carlos Sanchez, condividendo...
Bruno Russo- [ EVENTI ] I MIEI PRIMI 40 ANNI ( da "il ROMA" del 12/01/2011 pag. 23 )
Napoli sta cambiando, almeno in questo: sta presentando una cultura del ritrovo giovanile, che considerati i coprifuochi di varie zone della collina ...
Giordano Bruno Guerri- UN AMORE FASCISTA: BENITO, EDDA E GALEAZZO CIANO
Un amore fascista
Benito, Edda e Galeazzo
Mondadori, 2005

«24 aprile 1930. Edda Mussolini e Galeazzo Ciano si sposano a Roma, alla presenza dei grandi del regime fascista e della Chiesa, che li benedice come "prototipo della famiglia cristiana ed italica, di quella stirpe che conosce tutti gli ardimenti, tutte le glorie, tutti i fulgori". Lei è la figlia primogenita e prediletta del Duce, ha diciannove anni e un carattere forte e ribelle. Lui ha ventisette anni. E' figlio dell'eroe di guerra e potente ministro Costanzo Ciano conte di Cortellazzo. Ha intrapreso la carriere diplomatica, è bello, è elegante e molto ambizioso. Passano i primi tre anni nella "scandalosa" Shanghai e imparano a amarsi fra i tradimenti di lui e i nascenti vizi di lei. Al ritorno, l'Italia fascista assiste pettegola e sdegnata alle scostumatezze di Edda e alla troppo rapida ascesa di Galeazzo, ministro degli Esteri a soli trentatrè anni. Da quel momento la loro storia si confonde con quella del regime, in una saga familiare che Giordano Bruno Guerri sa raccontare come un romanzo senza rinunciare al rigore dello storico: le guerre d'Etiopia e di Spagna, il Patto d'Acciaio, la seconda guerra mondiale. Edda è fanaticamente fascista e filonazista, in perenne contrasto con un Galeazzo cinico e incerto, in bilico fra una politica di avvicinamento e una di distacco con la Germania, sempre odiato e disprezzato da Hitler e dai suoi uomini.

Negli anni più sconvolgenti del Novecento, i due formano una "coppia aperta" ante litteram, ma nella loro unione si insinua il tarlo dell'inappagamento e dell'infelicità: lui si perde con principesse e attrici, lei provoca uno scandalo dopo l'altro nel dorato ritiro di Capri. Poi il crollo del regime, il "tradimento" politico di Ciano e la sua condanna a morte, cui il Duce non sa, non può, non vuole opporsi.

Mentre infuria la guerra civile, in una trama affascinante che sta fra la tragedia greca e il film di spionaggio, Edda si innamora ancora di suo marito. Come una creatura maledetta, ostaggio delle sue inquietudini, non le rimane che questa passione disperata: la sola ragione per cui vale la pena di vivere e di lottare contro tutti.


Giordano Bruno Guerri
 
Bruno Russo- COLLODORO: LA SARDEGNA DI SALVATORE NIFFOI ( da "L'Umanità" del 10/03/08 pag 4 - Angolo della Cultura )
“Era un mattino di fine estate. Le nuvole se ne stavano appese in cielo come fiocchi da lutto e un sole rachitico iniziava a cajentare le pietre”…: quale migliore immagine della Sardegna , in particolare della provincia nuorese, poteva spiccare con più vibrante elegia da un’opera libraria sulle realtà locali, come “Collodoro”, di Salvatore Niffoi? la copertina infatti, di un’eleganza classica, riporta non a caso in un riquadro, il dipinto della “Battaglia contro i Turchi” del pittore Andrea di Lione, del 1641, custodito nel museo del Louvre, essendo il romanzo rappresentativo dell’epica lotta della terra contro la demagogia dei poteri. La valle di Gurdu Mele è il porto ideale dei pensieri per Antoni Sarmentu, il protagonista, sfortunato come tanti, impegnato a rincorrere i tormenti causati dal tumore della moglie e dall’indomabile tendenza allo zitellaggio della figlia. Per tali disgrazie, egli salirà al santuario della Madonna di Gonare a chiedere una grazia. Ma al momento della comunione, verrà “benedetto” anche da un terribile ed improvviso fulmine, penetrato nella chiesa durante un temporale di quelli con la grandine a grano grosso. Il lampo gli lascerà anche un ricordino sul collo, dorato come la medaglina del battesimo distrutta dall’evento e da quel momento in poi, tutti a Oropische lo chiameranno “Collodoro” Ma nessuno poteva immaginare che il fulmine aveva donato ad Antoni, la capacità di leggere nella mente del prossimo i rispettivi peccati. Comincerà con il parroco del Paese, don Basilu, che gli comunicherà medianicamente i suoi terribili segreti, abietti più di tutti, come il fatto di essersi alleato con quel potere che pur di accumulare soldi voleva fare di Oropische, un’immensa pattumiera con l’apertura di discariche illegali. Il riverbero delle vicende che attanagliano il sud in questo momento, sommerso dall’abbandono e dalla “munnezza”, piovono nel racconto: il culmine giungerà il giorno dell’esproprio di alcune terre di Monte Piludu per la costruzione del grande impianto di smaltimento. Oltrepassato il cammino della sopportazione, la gente del luogo, armata di ogni cosa possibile a offendere, dai lombi di cavallo ai concali di bue, marcerà compatta contro carabinieri, funzionari e speculatori. Sarà una battaglia particolarissima che la lettura del libro renderà gradevole, variopinta e caratteristica di quelle manie caratteristiche di un’umanità sopita, che rivivono negli indimenticabili personaggi dell’autore. Salvatore Niffoi vive a Orani in provincia di Nuoro.: suoi capolavori “La leggenda di Redenta Tiria” del 2005, “Ritorno a Baraule “ del 2007. Egli è stato anche vincitore del premio Campiello con “La vedova scalza” del 2006. Merita un’attenzione particolare quest’opera, data la profondità dei temi affrontati e ricuciti in un volume asciutto e artigianale come si deve alla Adelphi, con un glossario finale che traduce alcune terminologie interessanti dell’entroterra sardo. Sembra di leggere un Verga calzato ai problemi della sicurezza e del territorio coevi, con quella sottile ilarità che fa grandi i personaggi anche se cattivi. Un esempio è il dottor Tomasino Piramodde che firmava solo ricette di lassativi nei mesi che dovevano precedere il giorno dell’esproprio delle terre di Monte Piluddu, convincendo le cuoche che preparavano la maggior parte dei pranzi di nozze del luogo, a purgare i pranzi e le cene, comprese quelli per le feste campestri. Il tutto per castigare i nemici della discarica. Ritrovare l’arte dialettica ragionale ad inizio del nuovo secolo è una perla da non sciupare, come avvenne all’inizio del novecento quando il futurismo, nel suo momento di migliore espansione in Italia, trionfava con i regionalismi, ovvero con i racconti nel linguaggio proprio del luogo, che meglio esprimevano il dissenso e la realtà del cambiamento. Anche oggi i drammi di una regione sono insiti nel costume umano, asservito al denaro, e possono diventare arte letteraria. Collodoro è un romanzo che scorre dinamico e non si arresta neanche accanto alle strofe in dialetto, come quella del grido di vergogna di una delle madri del popolo in rivolta, che sembra lanciare l’anatema biblico contro l’avidità e l’attaccamento alla ricchezza: “Adduru duru a ti ballare, gruche juchet su dinare, su dinarejuchet gruche e tue perdende ses sa luche “: in sintesi “ adduru duru a ballare, che una croce ha il denaro, e tu stai perdendo la luce “.

BRUNO RUSSO
 
Bruno Russo- IO L’UOMO NERO: PIERLUIGI CONCUTELLI SI RACCONTA A GIUSEPPE ARDICA ( da 'Umanità' del 17/03/08 pag. 4 - Angolo della Cultura)
Per come è posto il titolo, il libro sembra scritto da ambedue intervistato e intervistatore. In effetti è così, "Io , l'uomo nero" è una intervista confessione tra Pierluigi Concutelli, ex terrorista neofascista condannato a quattro ergastoli e Giuseppe Ardica, giornalista di cronaca nera e giudiziaria che lavora oggi a Rai Parlamento. Il giornalista apre il microfono e lascia confluire come un fluido, la testimonianza dura di un irriducibile degli anni definiti “la notte della Repubblica”. Lo scenario temporale è costituito dal ricordo degli anni di piombo nella città capitolina: il 10 Luglio del 1976, da una Fiat 124 parcheggiata nel quartiere africano di Roma, scende un uomo che impugna un mitra. La vittima designata è il giudice Vittorio Occorsio. Il ricordo per un attimo si arresta e inizia l’analisi: come poteva avvenire un fatto del genere? Pierluigi Concutelli , membro di “Ordine Nuovo", lo riconduce all’analisi accurata dei fatti, visti dall’interno del movimento eversivo di destra. Il movente di tale insano gesto diventa in sintesi uno solo: l’utopia della rivoluzione armata come unica soluzione per cambiare l'Italia. Tale utopia era iniziata nel 1968, dalla rivolta contro una società, contro i suoi moduli vetusti, che diventò politica solo al nascere delle scazzottate di piazza tra neri e rossi. Influenzato o meno da altri fattori occulti, fatto stà che lo scontro tra le due fazioni diventò strumento per accrescere il clima di tensione del Paese, arrivando fino al timore di una guerra civile. In tale ambito, le ragioni e le utopie, lasciarono il posto alla reazione continua e sconsiderata ad ogni tipo di intimidazione. Una reazione che, a dire dell'ex terrorista Concutelli, poteva necessitare una rapina, un'assassinio od altro. Le sensazioni negative si amplificavano al crescere delle “soffiate”, dei tradimenti e delle fughe per non cadere in trappola. Il 13 Febbraio del 1977 il nucleo dell'antiterrorismo riuscì a catturare Pierluigi, circondando lo stabile dove egli era rifugiato, nel centro storico di Roma. Da quel momento Concutelli, con un gesto tipico dell'epoca, si dichiarò “prigioniero politico” e in seguito non si è mai dissociato dalla lotta armata, o pentito. A 63 anni e quattro ergatoli sul groppone, egli ha avuto la "lucidità" di ricostruire le tappe di un percorso da "cattivo", da "uomo nero" senza false ipocrisie o giustificazioni. L’esempio si trova nella descrizione dei momenti di panico interno ad Ordine Nuovo, quando nel 1973 l'organizzazione venne dichiarata fuorilegge: l'idealismo si sposò all'orgoglio di non voler scomparire, per cui l'unica alternativa possibile era la lotta armata. I dibatti e le discussioni interne non mancavano, ma la sensazione di solitudine disperata era prevalente; anche perché molti politici di destra criticavano l'estremismo, per poi strizzarvi l'occhio in privato. Il nemico numero uno era individuato nella democrazia, paragonata nel libro ad una piovra, cioè una testa piena di belle parole e le braccia, fragili tentacoli che finiscono per essere sempre più deboli. Il disegno scelto fu allora quello di colpire lo Stato non nel suo cuore, come professato dalle Brigate Rosse, ma recidendo proprio i tentacoli, la parte più fragile: ciòè agire, partendo dalla periferia, dalla parte più debole della struttura sociale. Questa "anatomia" di un'eversione, esprime per bocca di un terrorista come Concutelli, il pesante atto d'accusa contro ogni potere fine a se stesso, quando abbandona gli ideali per la condivisione della ragion di stato. Si adopera cioè l’ideologia per fare politica, ma la si abbandona per adeguarsi all’appiattimento delle “poltrone” comode. Ma la “confessione” di Concutelli, non risolve il dilemma morale di un gesto criminoso, ovvero se può un fine giustificare i mezzi. Il libro è utile anche per paragonare le frange del terrorismo italiano, nate assieme nella protesta, distanziate dalla lotta di piazza, ricongiunte nel pantano del male. In attesa di una sentenza più chiara da parte della storia, colpisce una precisazione finale, “un vero pentimento appartiene alla sfera più intima e privata dell'individuo, che non deve essere giudicata e nemmeno diventare pubblica”. Forse perchè, se è veramente autentico, un pentimento può da solo minare la serenità dell’uomo che non vuole più essere cattivo..BRUNO RUSSO
 
Bruno Russo – IL NICHILISMO DEI GIOVANI: OLTRE HIDAGGER ( da "L'Umanità " del 20/02/08 pag. 4 - L'angolo della cultura-)
Ho preso da un vecchio vocabolario il significato del termine “nichilismo”: movimento rivoluzionario russo nato alla fine del secolo XIX che esaltando fino al massimo l’individualismo anarchico, negava ogni valore agli ordinamenti sociali e politici proponendosi di annullarli. Volevo accertarmi da cosa nascesse la definizione che sento spesso dei giovani e che ha sollecitato la mia attenzione ad un libro recentissimo, “L’ospite inquietante”, di Umberto Galimberti. E’ solo un ricco esempio, sul fatto che la letteratura sull’argomento non si svincola dal giudizio scontato che vuole l’animo giovane sede costante di nefaste induzioni intellettuali che, per l’appunto annichiliscono l’individuo, conducendolo verso il male.
L’autore imputa a tale “modus vivendi” la causa del dolore giovanile,
registrabile proprio in queste ultime generazioni, a suo giudizio
abbandonate al mercato, che li conduce solo ai porti materialistici del
soddisfacimento puro. Egli analizza tutti gli aspetti estremi con i quali i
giovani vengono a contatto, dal gesto omicida alla droga; individuando
nell’aspetto sotteso dalla sua critica personalissima, il colpevole: la
nostra cultura, perché sia dal punto di vista religioso che illuminista,
soffre l’assenza di Dio e nell’istesso tempo della ragione come mezzo per
discernere tra bene e male. Effettivamente su questo non ci piove, ma chi
ha ucciso la cultura eliminandola dei suoi elementi passionali che nascono
proprio quando ci si lega all’aspetto più intrinseco delle cose, come gli
ideali che oggi fanno tutti a gara per eliminare? Mi verrebbe di rispondere
“noi”, ma dietro la mano assassina albera sempre una tortuosa necessità che
è quella di compiere un processo attivato da un seme, che nessuno ha
fermato. Il seme è sempre quello, la necessità di legare l’educazione dei
nostri ragazzi al raggiungimento di un obiettivo, senza sottolineare che il
migliore aspetto dell’evoluzione e proprio quando si accompagnano tutte le
contraddizioni che nascono lungo il percorso, soprattutto se di fronte a
scelte. Le scelte infatti, che per un giovane sono tante, pongono la
necessità di un indirizzo che non tiene conto mai, dalla scuola alla
famiglia, dell’irrazionalità di un ragazzo e della sua volontà di essere
sempre “contro” il mondo che cerca di plasmarlo, di aiutarlo, di
indirizzarlo, di marcarlo: da qui le “sue” scelte che si pongono sul fronte
contrapposto delle cose, quell’opposizione continua nella quale si
ritrova, alla fine, un pensiero compiuto. Ma per fortuna l’autore
l’esperienza la salva, perché mette in calce e riprende spesso il motto di
Martin Heidegger, “ Il nichilismo non serve a niente metterlo alla porta,
perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la
casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in
faccia”. Perciò l’autore , invita la gioventù a combattere “l’ospite
inquietante”, se non ci sono altri mezzi nella nostra cultura, guardando
allo specchio come è diventato. Ma non sono d’accordo: questo può essere
l’urlo di un padre che invita il figlio a guardare le proprie inettitudini
riflesse in un’immagine, ma non è l’ammissione di colpa di tutta una
generazione di madri e di padri che nel tentativo di combattere gli
insegnamenti dei “loro” genitori, hanno posto i figli nel nuovo vicolo
cieco, quello della libertà forzata per una scelta giusta, senza contare
che un giovane si ribella a qualsiasi modello, perché per comprendere tutto
l’universo, deve necessariamente porsi dalla parte opposta della barricata
di ciò che viene offerto, e ciò è giusto. Del resto la definizione del
vocabolario non calza ai nostri ragazzi: semmai è la nostra, che non si è
indirizzata autonomamente verso l’unica certezza visibile dell’essere che
è l’amore, in qualsiasi meandro esso dimora. Umberto Galimberti accompagna ogni capitolo ad una frase di un pensatore del secolo scorso. Noi inseguiamo sempre, nuovi alchimie quando eminenti pensatori avevavano già disegnato la nostra immagine nello specchio del tempo. Sigmund Freud, nella sua “Contributi a una discussione sul suicidio” (1910), afferma che “la scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello sviluppo. Essa non si deve assumere la prerogativa di inesorabilità propria della vita; non deve essere più che un gioco di vita”.

Bruno Russo
 
Bruno Russo-PADRE PIO: LA VERITA’ SUL FRATE DELLE STIMMATE ( da 'Umanità' del 06/03/08 pag. 4 - Angolo della Cultura)
In concomitanza con la riesumazione del corpo di Padre Pio, dopo 40 anni
dalla sua scomparsa, si è riaperto il dibattito sulla distanza tra la
Chiesa e i miracoli. In questo ambito si colloca il libro di Saverio Gaeta
e Andrea Tornelli “ Padre Pio. L’ultimo sospetto – La verità sul frate
delle stimmate “ che cerca di rispondere alle domande, attraverso
un’inchiesta aggiornata con documenti e foto indedite, sulla vita e
sull’opera del Santo di Pietrelcina. In realtà l’ipotesi di inganno è stata
rilanciata dall’uscita di libri che, citando vecchi documenti del Sant’
Uffizio, hanno rieditato gli antichi sospetti. Il libro di Gaeta e Tornelli
potrebbe essere di contro, una valida risposta a tali ipotesi di inganno,
un intento racchiuso nella frase di Jean Guitton, riportata in calce alla
premessa: “ Nella mia vita, tutta dedicata a vagliare le tracce del Dio
nascosto e dei suoi testimoni, ho sempre constatato che, se la critica può
mettere in crisi il credente, la critica della critica può ristabilire la
verità “. Alla definizione squallida di “ piccolo chimico “ data a Padre
Pio si contrappone la lungaggine del processo di beatificazione che, per la
sua complessità, basta a dimostrare l’autenticità del prodotto. Fu
l’intervento personale di Giovanni Paolo II del 20 Marzo 1983 che sbloccò
le perplessita del Santo Uffizio e fece aprire il processo diocesano ,
conclusosi il 21 Gennaio del 1990. Dopo 14 anni Papa Wojtyla firmerà il
decreto sulle virtù eroiche del Padre di Pietralcina. Dopo 2 anni , Padre
Pio viene proclamato beato e dopo 3 Santo, il 16 Giugno del 2002. Ma la
critica è andata avanti e, come descritto nel libro, ha interessato storici
che non conoscendo i fondamenti dottrinali del cattolicesimo, hanno con
orgoglioso approccio “agnostico”, valutato questioni ecclesiastiche con
approccio sconnesso e mirato. Molti hanno legato le esperienze di Pade Pio
ad aspetti politici e locali, con una certa approssimazione, lontano dal
mondo di spiritualità che gli appartiene e ci appartiene: anche da profani
e semplici mortali, quante volte siamo stati a contatto con dei fenomeni
inspiegabili?. Saverio Gaeta è caporedattore di “Famiglia Cristiana”, ha
lavorato per il settimanale “Jesus” e per “L’osservatore romano”; ha
insegnato giornalismo in alcune Università pontificie e Istituti di scienze
religiose; tra i sui libri si ricorda il best seller “ Il segreto di Madre
Teresa “ del 2002 e “Miracoli, quando la scienza si arrende “ del 2004.
Amdre Tornelli è invece inviato vaticanista de “ Il Giornale “ e tra
le sue numerose pubblicazioni si sottolinea “Il Papa che salvò gli Ebrei”
del 2004 e “Il segreto di Pade Pio e Karol Wojtyla” del 2006. Al centro del
libro su Padre Pio spiccano delle foto in bianco e nero, scattate da Padre
Giacomo Piccirillo 10 minuti dopo la morte di Padre Pio, che mostrano la
scomparsa delle stimmate da mani e piedi senza alcun residuo di cicatrice.
Forse è opportuno rispondere alle critiche con delle critiche, mettendo in
risalto, l’indiscutibile relatività delle prime; ma occorre anche svolgere
il tutto sulle realtà inconfutabili dei misteri della fede. Essi non sono
spiegabili, ma la stessa scienza che ammette solo fatti riproducibili si è
trovata proprio nell’ultima parte del nostro secolo, a contatto con
fenomeni contrari ai classici teoremi della fisica. Allo stesso modo il
progresso dello spirito, permette di “vedere” fenomeni che possono
contraddire la rigidità della dottrina, ma la cui riproducibilità è
possibile solo ad alcune persone e non ad altre. Il libro è comunque una
colta risposta al principale male che attanaglia la fede: il dubbio che ivi
viene posto e poi demolito, proprio per l’inconsistenza delle ragioni
addotte. Ma Padre Pio è vissuto in un’epoca di grandi miracoli, di grandi
sconvolgimenti. Non parliamo tanto della caduta del muro e della fine
della guerra fredda, ma della semplicità di esperienze di vita che ha
accomunato personaggi diversi come il Papa polacco e il Santo di
Pietrelcina. Entrambi hanno subito sulla propria pelle, il passaggio
dall’umiltà alla celebrità. In un suo libro, Wojtyla confessa che durante
i suoi lunghi viaggi in treno, che anticipavano il conclave, si accorgeva
che ciò che avveniva, preannunciato da segni e premonizioni, non era
normale e non lo voleva confessare a nessuno. Vuol dire che la verità porta
ad isolarsi, in un mondo che non vuole capire. Non vuole intendere che
nella semplicità di un uomo si può sentire l’immensità di ciò a cui siamo
destinati ed entrare in sintonia con essi, pronti a pagarne ogni
conseguenza, ogni tentazione, ogni ostacolo..
 
Bruno Russo- I MILLE SPLENDIDI SOLI DI KHALED HOSSEINI( da "L'Umanità" del 15/03/08 pag 4 - Angolo della Cultura )
L’autore de “Il cacciatore di aquiloni” Khaled Hosseini, con la sua
ultima opera “Mille splendidi soli”, dedicato alle donne dell’Afghanistan,
richiama la luce della verità e della pacifica prosperità futura sul
silenzio del mondo di fronte alle storture esistenti in terra d’Asia, che
hanno visto per troppo tempo, cadere dal cielo, continui e silenti come
soffici fiocchi di neve, i sospiri di tante donne, che in ogni istante
sopportano senza proferir parola la loro condizione di sofferenza. Tale
immagine si esprime con dolcezza, nella figura di Mariam che vive fuori dal
mondo, in attesa di ciò che saltuariamente le può essere reso possibile dal
padre che le fa visita una sola volta alla settimana, non perchè usanza del
luogo o necessità, bensì perché Mariam è una “harami” , che in occidente si
direbbe “bastarda” e quindi non può convivere sotto lo stesso tetto dove ci
sono le altre sorelle “naturali” e le tre mogli del padre. Anche lo
studiare, unica ancora di salvezza, le viene diniegato perché non
servirebbe a nulla. Nel suo mondo l’unica cosa che le è dato da fare, è
imparare a sopportare, come una eterna punizione per ciò che essa stessa
rappresenta. La strada sdrucciolevole, tristissima di Mariam si incrocerà
con quella di Laila , nata a Kabul ai tempi della rivoluzione del ’78, con
due fratelli arruolati nella jihad e morti in breve tempo. Al loro
funerale, Laila non piange, del resto già a due anni ne aveva perso i
contatti, ma l’irrimediabile mancanza, il vuoto per l’”assenza”, verrà
colmata nel libro, dal suo vicino di casa, Tariq. Egli è un bambino con una
sola gamba per colpa di una mina, ma con una grande capacità di difendere
Laila dal mondo ostile dei coetanei e di inculcarle la fede nell’amore, con
gesti semplici ma efficaci, come il darle la buonanotte ogni sera facendole
dei segnali luminosi dalla finestra, o insegnandole le parolacce
nell’idioma “pashtu”. I mondi di Mariam e Laila non sono diversi: entrambi
appartengono a quello dell’amore e dell’amicizia, che tesserà una
meravigliosa storia di amori eterni, in una terra arsa da crescente sete di
pace. L’autore nasce nel ’65 a Kabul, ma si trasferisce negli Stati Uniti
dopo l’arrivo dei russi, grazie all’intervento del padre diplomatico:
adesso Khaled Hosseini vive in California con la famiglia. Dopo essersi
laureato all’Università di San Diego, ha scritto il suo primo libro “Il
cacciatore di aquiloni” del 2003, tracciando per la prima volta la realtà
del suo luogo di origine e diventando per questo caso editoriale tradotto
in trenta Paesi. Tante persone l’hanno letto o si accingono a farlo,
essendo l’opera in evidenza in molte vetrine, ma il libro ha un doppio
fondo, che non è solo la capacità di un autore di aver tracciato la
tristezza dei profughi afghani pur avendo avuto egli una sorte in un certo
qual modo migliore, nonché di essere membro dell’organizzazione americana
“UNHCR” che si occupa proprio dei profughi afghani in termini di diritti
fondamentali dell’individuo, ma quella di aver tradotto in “poesia” una
virtù che è anche la negazione di se stessa, ovvero la sofferenza della
sopportazione come tempra umana che porta a direzionare i sensori del
nostro essere, verso chi può essere assai diverso da noi, ma ha lo stesso
bisogno di vivere amore e dolcezza. Ciò diventa una forza divina che
rappresenta più di ogni altra cosa citata, i mille splendidi soli, che
restano nel luogo dove si è provato tale dolore. Sono le energie che
esistono accanto a coloro che vengono relegati nella stanza buia dove non
entra la luce, perché regna solo la solitudine, benché la chiave, la
possieda chi ci dovrebbe voler bene per natura e invece si comporta in ben
altro modo. Il tempo scorre inesorabile ma l’amore non si allontana se la
distanza sembra grande, come alla fine del libro. Nella vita si è costretti
a sottostare a delle scelte che non sono le nostre, stadi irremovibili
della vita, ma prima o poi ci si rivede sempre e anche i sentimenti, prima
ancora di spolverarli per vederli luccicare, saltano sempre alla luce del
sole, facendo rivivere quell’irraggiamento antico.Verso la fine del
racconto, brilla negli occhi di Laila il ricordo di Kabul che si fa sempre
più vicina per la sua scelta di tornare : “ Non si possono contare le lune
che brillano sui suoi tetti, né i mille splendidi soli che si nascondono
dietro i suoi muri “ .

Brunoi Russo
 
Bruno Russo- POMPEI : LA SAGA DI UNA ERUZIONE NEL PRESAGIO UMANO ( da 'Umanità' del 18/02/08 pag. 4 - Angolo della Cultura)
Da sempre mi ha incuriosito l’attenzione artistica posta dall’uomo su un evento naturale come l’eruzione del Vesuvio, che ha portato, oltre ai rovinosi effetti, capolavori letterari e pittorici, come le varie gouaches del ‘700 e dell’800. Ancor più mi fa rabbia constatare che la letteratura sull’argomento, siano state meglio redatte da autori stranieri rispetto a quelli nostrani, come se “loro” avessero nel loro distacco ma in una più delicata affezione rispetto alla nostra usurata, meglio inalato il profumo delle cose partenopee. Un esempio è “Pompei” dell’autore Robert Harris che decrive minuziosamente il romanzo immaginario delle venti ore immediatamente precedenti alla catastrofe del 79 d.c. La cosa interessante è l’aspetto tecnico e artistico del racconto, perché mentre Harris descrive quella pace tipica dei posti paradisiaci che pullulano in Campania, sottolinea la personalità e l’esperienza di un ingegnere, un certo Marco Attilio responsabile dell’Aqua Augusta, immenso acquedotto imperiale che riforniva 250.000 persone, il quale era l’unico a stare preoccupato, nel racconto, perché aveva notato che le sorgenti d’acqua poste alle pendici del Vesuvio, si andavano esaurendosi come scaldate da una anorme sorgente di calore, nonché si mescolavano a zolfo. Senza immaginare l’entità di ciò che stava per accadere, ma vigile solo sul grave problema idrico, Marco Attilio si avvicinerà così al cratere del Vesuvio, per osservare da vicino il fenomeno e valutare i possibili rimedi; accorgendosi lentamente, come un mostro che ti avvolge sempre di più dell’immane, potenza della natura che si ribella inghiottendo gli uomini e le loro corruzioni, tipiche del tempo dei romani. La descrizione della tragedia sembra fatta da un cronista dell’epoca e non da uno scrittore straniero. L’autore stesso cita poi come fonti principali del suo studio che ha reso possibile l’opera, le traduzioni di Plinio, Seneca e Stradone pubblicate dalla Loeb Classical Library , i dieci libri del “De Architectura” di Vitruvio curati da Ingrid D. Rowland e Thomas Noble Howe, l’analisi vulcanologia dell’eruzione svolta da Haraldur Sigurdsson, Stanford Cashdollar e Stephen R,.J. Sparks su “The American Jouyrnal of Archaeology”. RoberT Harris è riuscito così a mischiare scienza e romanzo, con tratti anche molto romantici, lasciando sul palato del lettore un gusto molto familiare a quello di Tolstoiano , che in “Guerra e Pace” adoperò l’epopea di una tragedia storica, per guarnirla di teorie interessantissime sulla statistica degli eventi. In “Pompei” ci sono descrizioni di una ingegneria impeccabile, rese possibili dallo studio di Harris delle opere del professor A. Trevor Hodge sugli acquedotti dei romani; studio determinante per la descrizione dell’Acqua Augusta. Ma, come preannunciato, alla fine sul palato c’è anche quel retrogusto amaro che deriva dalla nostra cultura scientifica sull’argomento che non è stata capace, di condensare delle teorie valide sulla prevedibilità delle eruzioni e dei terremoti, basata anche sulla descrizione analitica nostrana , praticamente assente, di ciò che stoticamente è accaduto sulla nostra pelle. Così pochissimi sanno che oggi, l’unico mezzo possibile è proprio il monitoraggio del ph nelle falde acquifere immediatamente collegate con il Vesuvio. Una reattività abnorme, come quella del romanzo è indicativa di un fenomeno da approfondire. Gli osservatori stranieri sono spesso andati oltre l’immagine artistica dei fenomeni che ci circondano e che spesso, per noi si ferma solo alle emozioni di un mondo che ci sta sotto i piedi e che si va sfaldando, nel color rosso porpora di una gouaches, dove si immerge la bellezze dei luoghi dove viviamo e l’impossibilità di viverli come si dovrebbe. Mi ha colpito al riguardo una frase finale del libro , un presagio eterno come il tempo e minaccioso come un vulcano, dove il protagonista, per mano di Robert Harris, afferma: gli uomini sbagliano a confondere la misurazione con la comprensione e al porsi sempre al centro di tutto.

BRUNO RUSSO
 
Bruno Russo –GHERARDO COLOMBO: SULLE REGOLE ( da "L'Umanità" del 25/03/08 pag 4 - Angolo della Cultura )
L'intento di Gherardo Colombo. nel libro "Sulle regole", è far dialogare i lettori e l'opinione pubblica intera, non tanto sull'amministrazione quotidiana della giustrizia, ma sui valori di base che in teoria dovrebbero essere punti di riferimento per ogni tipo di sentenza. La vicenda dell’autore in magistratura è stata controversa, ma qual’è stata esattamente la spinta intellettiva che ha allontanato definitivamente Gherardo Colombo dal mondo delle toghe? L'autore sembra rispondervi nella prefazione, intitolata per l'appunto "perchè?", affermando che le sue dimissioni volontarie, dopo 30 anni di onorata carriera, sono avvenute per l’impossibilità di fornire un valore aggiunto alla sua missione. Ovvero, dopo tante vicende giudiziarie note, dalla P2 al lodo Mondadori, passando per Mani Pulite, il magistrato si è sentito impedito nel riavvicinare il mondo della giustizia, al rispetto delle regole, che non è un dogma vuoto ma una necessità perenne. Per meglio spiegare l’asserto, l’autore dedica due capitoli ai modelli antichi di società: la verticale, che è la più diffusa in quanto fondata su logiche gerarchiche e competitive, dal momento che una distribuzione equa dei profitti impedisce il completo appagamento individuale; quindi la società orizzontale che rispetta invece ogni persona e si orienta al reciproco riconoscimento di diritti e doveri. Su tali esempi l'autore si apre la strada per spiegare come il modello orizzontale sia quello da realizzare. Un modello, nato dal tentativo dell’Unione Europea, dopo le guerre della I metà del ‘900 di definire almeno una base di partenza per una società più giusta, trascrivendo delle norme di civiltà nella Dichiarazione universale dei diritti umani, che si sono riversate poi nella Costituzione Italiana. Orbene, la crisi della giustizia è caratterizzata oggi da un uomo che si barcamena tra buonismo e giustizialismo, tra garantismo e rigore, perché non comprende più il valore delle regole , la cui applicazione dovrebbe essere una certezza. Proprio a tal uopo, Gherardo invita i lettori al dialogo reciproco, a dibattiti costruttivi per capire come creare le condizioni oggettive per recuperare tale riferimento. Non a caso in calce alla copertina egli afferma "la giustizia non può funzionare se il rapporto tra i cittadini e le regole è malato, sofferto, segnato soprattutto dall'incomunicabilità. La giustizia non può funzionare se i cittadini non comprendono il perchè delle regole". Nella parte terza del libro, dal titolo non a caso " verso una soicietà orizzontale", l’autore sottolinea quindi che il modello orizzontale non è una certezza ma il limite al quale noi tutti dobbiamo tendere, nella convinzione che giustificare il diritto alla fine del secondo millennio, ha un suo prezzo. Occorre difendere il rispetto delle regole, calzate in ogni realtà temporale diversa, perchè la certezza del diritto non può non prescindere dalla certezza della pena, secondo misure che dipendono dalla nostra capacità di riconoscere le regole, nelle necessità sancite dalla “Dinamica del tempo”. Proprio la Dinamica del tempo dà il titolo a uno degli ultimi capitoli, ove è presente un’ulteriore definizione profonda: “ La storia è una situazione fatta di prima e dopo, un tragitto che assomiglia ad un lungo e tortuoso sentiero di montagna dal quale non si vede la fine”. Quindi se la percezione della storia non è sempre la stessa, occorre comprendere il proprio tempo e ridurre la velocità del cambiamento, attraverso la comunicazione e il dibattito. Del resto egli stesso osserva come le stesse norme internazionali della Dichiarazioni dei Diritti e dei Doveri, siano state in definitiva delle "indicazioni" da seguire e non delle leggi abili ad obbligare gli stati membri delle Nazioni Unite alla loro applicazione: "Non si è voluto o non si è potuto andare oltre”, spetta a noi andare oltre? Prima di concludere il libro, egli proprio sulla base che le regole siano le fondamenta della società, seguite da un percorso di consapevolezza al fianco della storia, sottolinea che " è il percorso e non il traguardo , a riempire la persona del proprio valore e della propria dignità”, cosa che dipende sicuramente da ognuno di noi, nel comunicare, nel comprendere la spiegazione degli eventi della società nella quale siamo integrati, per poi conformarli al valore delle regole. BRUNO RUSSO
 
Bruno Russo- GERALDINE BROOKS: I CUSTODI DEL LIBRO ( da L'UMANITà" del 01/04/08 PAG. 4 )
“I custodi del libro” di Geraldine Brook è stato definito a ragione un “meraviglioso, evocativo viaggio a ritroso nel tempo”, quando i tribunali inquisitori dell’intelletto umano e non la semplice incuria del tempo, erano attivi più che mai. Il volume di Brook, che ha venduto 500.000 copie in un solo mese negli USA, narra di come si sia salvato un testo sacro, dopo aver saltato innumerevoli ostacoli, partendo dall’occupazione tedesca della Jugoslavia del 1940 per arrivare alla Siviglia del 1480. In tale viaggio si susseguono storie di potere, tradimenti e amore, di cui solo le ultime sono determinanti alla conservazione del libro. Il testo in questione è la “Haggadha”, un manoscritto ebraico del XV secolo prodotto nella Spagna medioevale e contenente preghiere, ma non solo. Il libro è ricco di miniature di mille colori, elemento intollerabile da parte della fede giudaica che ostacolava ogni forma di illustrazione. I nazisti e poi gli uomini della mano nera, cercarono di appropriarsene, ma il testo della Haggadah fu messo in salvo dal bibliotecario musulmano del Museo di Sarajevo. E dalla capitale Bosniaca parte il racconto. Hanna Heath, restauratrice australiana di libri antichi, riceve di buon mattino la telefonata di uno studioso di manoscritti ebraici. L’israeliano le comunica che duranta la Pasqua ebraica del 1984, il capo della comunità giudaica di Sarajevo aveva tirato fuori, durante il pranzo di “Pesach”, il prezioso testo reputato distrutto dai bombardamenti della NATO. In realtà, continuava l’uomo, il libro era stato messo al sicuro; salvato per ben due volte adesso non attendeva altro che essere restaurato. Hanna ha così la possibilità , accettando tale incarico, di toccare la preziosa reliquia e ricostruirne il corso attraverso le imperdibili pagine dell’opera di Geraldine Brook. La scrittrice traccia le tappe di una storia incredibile, che ha resistito all’inquisizione e ai nazisti. Questi ultimi, dediti come erano all’inseguimento di opere di particolare valore artistico e spirituale, se ne volevano impadronire per portarla in Patria, ad accrescere il potere occulto del “terzo raich”. Il mistero viaggia così parallelamente alle persecuzioni sofferte nel tempo dagli ebrei, non solo ad opera tedesca, ma anche quando furono cacciati dal suolo iberico nel 1492. Il racconto simboleggia la continuità della lotta per la vita, che può essere assicurata dal pensiero umano, anche curando e preservando nel tempo, un qualsiasi testo. “ I custodi del libro” è una storia vera, romanzata e allargata da vicende e personaggi, quasi tutti di fantasia, ma ricuciti grazie alla consultazione di volumi autorevoli, come quelli di Harvard negli USA.. Per bocca di Hanna l’autrice considera, alla fine, l’importanza di misurarsi con le tecniche degli antichi sia per il restauro di un libro che per rieditare tutta la storia affascinante che può girarci intorno. Nel capitolo “Macchie di vino”, ambientato a Venezia nel 1609, sono presenti fatti inventati e non sull’inquisizione, come il fatto vero che molti ebrei, volenti o non volenti, erano costretti a convertirsi al cattolicesimo per non subire pene tremende. Nel capitolo “Acqua di mare”è presente un passo intenso dove si parla della capitolazione di Granada, come un segno della volontà divina, perché la Spagna doveva essere un paese cristiano: “per aggraziare Iddio della vittoria, hanno dovuto eliminare ogni giudeo dalla penisola, a meno di una improbabile conversione; è vero che i nostri soldi servivano per la lotta contro i Mori, ma la verità è che sono serviti per riempire i loro forzieri; siamo stati munti e ora, come una mucca prosciugata, veniamo condotti al macello”. L’autrice non sottolinea solo l’epopea giudaica, ma quella di ogni pensiero umano che di fronte alla ignoranza del potere senza scrupolo, cerca di tramandarne il ricordo per non farlo bruciare. Così anche il popolo bosniaco viene fuori così dalle scene delle guerre e delle devastazioni che esso ha spesso subito. In calce ad un capitolo, Geraldine Brooks cita l’iscrizione osservata sopra un mausoleo bosniaco della II guerra mondiale: “ Questa è la tomba. Fermati un momento mentre tace la foresta. Togliti il cappello! Qui riposa il fiore di un popolo che sa morire”. BRUNO RUSSO
 
Bruno Russo- IL CAMPO DEL VASAIO DI ANDREA CAMILLERI ( da "L'Umanità" del 06/05/08 pag 4 - Angolo della Cultura )
“Il Campo del Vasaio” di Andrea Camilleri è un luogo che appartiene alla cosiddetta topografia morale dell’autore, la contrada della Sicilia ove albera malignità, malcostume e sporcizia, un esempio del costume morale degradato dell’entroterra della trinacria. Per tale motivo il posto è denominato anche “campo del sangue” dove gli eventi dolorosi spiccano dalla desolazione di un cimitero di argille , cocci e sconci, acquistato forse con i 30 denari di un tradimento classico, come Giuda. Infatti, nel “campo del vasaio” vengono trovati 30 pezzi di un uomo, evidentemente prima trucidato con un classico colpo alla nuca e poi macellato. La prima ipotesi cade sul delitto di mafia conseguente a tradimento, ma è solo un fatto scontato che nel seguito si smentirà. Il commissario Montalbano analizzerà tale sequenza di eventi e si renderà conto che si tratta dell’ennesima frontiera tra bene e male, dove l’intreccio è voluto per nascondere i segreti, in una simulazione di tradimenti bene concertati, come se fossero gli stessi luoghi a volerlo. Gli incubi provocati dal dubbio lo perseguiteranno nei pensieri notturni, relegando Montalbano in una solitudine anche diurna, dove sarà coinvolto suo malgrado nella luce degli inganni, addentrandovi fino a farsi male e a spenderne le dovute lagrime. Nel commissariato di Vagata, una signora molto maliarda e dedita a trucchi come di magia, porta un certo scompiglio tra le scrivanie e coinvolge la leggerezza dell’animo di Montalbano, nell’incerta esplicazione dei suoi affanni lavorativi. La capacità della donna, colombiana e dal nome Dolores, è di creare dipendenza negli animi più stanchi, riluttanti alla reazione, come per scalciare quelle stesse pietre che costituiscono il manto del “campo del vasaio”. Dolores arriverà ad adescare e ingannare l’uomo più vicino al commissario Montalbano, al solo fine di “tradire” e sviare l’inchiesta: l’uomo ne sarà coinvolto ma nello stesso tempo inizierà un processo volontario di redenzione, che sarà aiutato dall’amico Montalbano. Egli reagirà agli inganni con altri inganni. Sarà l’unico modo di beffare i flussi nefasti che si aggirono nel “campo del vasaio”: adoperare la falsità per combattere la falsità, non un addomesticamento del male ma la possibilità di un cuore forte di effettuare un trucco, per raggirare il mondo. Montalbano, nel libro, resterà comunque un “povero puparo” di una “mischina opira dei pupi” dove è il pensiero che tortura maggiormente la mente degli onesti: “Montalbano si pose ‘na sottili questione teologica: Dio annava ringraziato per aviri fatto stare meglio a un pluriassassino come Balduccio?”. Il personaggio di Montalbano, ormai assai noto a tutti, è bene descritto a ‘pie di libro in una nota di Salvatore Silvano Nigro, che sottolinea come nel nuovo racconto, il commissario sia stato messo a dura prova con se stesso, in una sorta di gara di scacchi che alla fine viene vinta, anche se con le lagrime: “ Montalbano è viziato dalla letteratura. Agguanta un romanzo di Camilleri. Vi precipita dentro e si lascia impigliare dalla telaragna del giallo”. Il libro è piccolo e appassionante, elegante e arricchito per intero dal pastoso idioma siciliano: “ Montalbano pensò che Balduccio gli aviva confessato sì l’omicidio di Filippo Alfano, ma aviva trascurato il piccolo particolare di avirlo fatto tagliare in trenta pezzi come i denari di Giuda. Ecco pirchì gli aviva confessato l’omicidio , sicuro com’era che Montalbano sarebbe annato a controllari. Aveva trascurato quel particolare apposta. ‘Na volta che il commissario avissi scoperto lo scempio del corpo di Filippo Alfano , si sarebbe persuaso che la ripetizione dello scempio era come falsificare ‘na firma copiandola”. Effettivamente il lessico gioca a favore dell’impressione che il lettore ha, che Montalbano sia calettato nella storia ad osservare continuamente il gioco, a pedine ferme. L’immobilità di una tale impressione conferisce quell’aria di sogno e di arretratezza tipico della terra di Sicilia: “Era cosa cognita che Pasquano era licco cannaruto di dolci. Si calò a sciaurare i cannoli: erano freschissimi. Allura si versò canticchia di passito nel bicchiere, affirrò un cannolo e principiò a sbafarselo talianno il paesaggio dalla finestra aperta”.

Bruno Russo
 
Bruno Russo- CUORI NERI : LA RIEDITAZIONE DI LUCA TELESE ( da "L'Umanità" del 26/04/08 pag 4 - Angolo della Cultura )
L’interesse per l’ultimo lavoro di Luca Telese dal titolo “Cuori Neri” , nasce dalla ricchezza dei contenuti documentali; telegrammi, fotografie, lettere, interviste, estratti da programmi radiofonici e televisivi, che devono far luce su coloro, che furono primi attori dell’eversione nera degli anni di piombo, 21 giovani mitizzati, demonizzati, dimenticati , così come le loro storie, dal rogo di Primavalle alla morte di Ramelli. L’intento dell’autore, giornalista parlamentare da 9 anni a “Il Giornale”, è realizzare una memoria condivisa e non di parte, anche per confrontare quegli anni con la storia recente.. “ Ventuno morti, ventuno foto sgranate, più antiche del loro tempo: foto tessera, foto tratte dall’album di famiglia, foto sfuggite dagli scartafacci processuali e dei rapporti di polizia, strappate all’oblio: unica traccia riconoscibile di un pugno di vite interrotte. Spesso le ultime foto, talvolta le uniche: in ogni caso quelle con cui i << cuori neri >> sono stati trasfigurati in un mito, dai loro camerati.”. L’appello è della generazione dimenticata come la chiama Luca Telese, ovvero giovani di destra condotti alla dimenticanza, alla mera trasfigurazione di una realtà poco nota dal punto di vista umano; la fine di una ciurma di sognatori senza volto, perché ritenuti senza anima. “Assunta Almirante 2004: Giorgio (Almirante) non conosceva il valore del denaro. Gli compravo un paio di scarpe da 100.000 e gli dicevo: costano 24.000, che altrimenti lui era capace di non mettersele. Ma il giorno in cui morì, cercando qualcosa nei suoi cassetti, scoprii una cosa che mi colpì molto: per 24 anni , di tasca sua, aveva erogato un bonifico alle due famiglie di Padova ( delitto Mazzola e Girallucci ) “. La testimonianza della politica di quegli anni, dimostra l’attaccamento ad una etica che oggi non esiste e che allora non poteva realizzarsi nella burocrazia di partito, ma in quel qualcosa di più, affidata solitamente al singolo uomo. Dal ricordo ai tempi attuali, si palesa la tendenza odierna a non sentirsi coinvolti più di tanto, essendo più che finita la cosiddetta appartenenza: “poche ore dopo, infatti, nella bacheca dell’atrio ( della scuola ) due fogli protocollo fanno bella mostra di sé, affissi con le puntine. Sopra c’è una scritta rossa: ecco il tema di un fascista. Il testo è costellato di sottolineature. Per quanto nessuno ancora possa nemmeno immaginarlo, quel tema e la sua <>, sono l’inizio di una drammatica catena che, anello dopo anello, si chiuderà con la morte di Sergio Ramelli”. Sono tasselli di una ricca collezione di testimonianze di familiari, parenti, amici, politici, quotidiani, di fatti oscuri ove vittime e carnefici si scambiano i ruoli per un dovere di cronaca:” Ramelli era noto all’ufficio politico della questura di Milano per affissione abusiva di manifesti del cosiddetto Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del Msi. La morte di Sergio Ramelli ripropone una serie di gravi problemi, innanzitutto alla polizia e alla magistratura. Infatti, il permanere di episodi di violenza privata e di vendetta ha la sua radice nella mancata eliminazione dei gruppi squadristi che, instaurano un clima di sopraffazione a colpi di rivoltella, innescano una spirale di violenza pericolosissima, prevista e sapientemente calcolata dagli artefici della strategia della tensione più volte denunciata dalle forze di sinistra “ – dal giornale Avanti del 30 Aprile 1975 – “. La ricostruzione di Luca Telese è minuziosa e completa; un susseguirsi di vite spezzate da uno dei più tragici buchi della storia. 800 pagine di effetto che si leggono in un fiato, intramezzate da una serie di fotografie che fanno capolino nei manifesti e nei commenti dell’epoca, non disdegnando la vignetta umoristica. Di tanti libri sull’argomento, “Cuori Neri” propone di andare oltre il ’68; mettendo al centro del palcoscenico non la storia, la politica o le mode, ma la testimonianza dettata o scritta di persone, loro malgrado, protagoniste: “Paolo di Nella era un militante degli anni ’70, un nazional rivoluzionartio, come si diceva allora. Soltanto comprendendo questi due termini si può comprendere la sua figura. Essere un militante degli anni ’70 signifivava dedicare tutto il proprio tempo, tutta la propria giornata alla politica, fare della politica un vero e proprio impegno etico, oserei quasi dire spirituale. Gianni Alemanno da Telefono Giallo del 1989”.

Bruno Russo
 
Bruno Russo- I TITOLI TOSSICI E I SEGRETI DEGLI ISTITUTI BANCARI ( da "IL Denaro" del 14 Maggio 2011 pag. 66)
“I titoli tossici sono strumenti finanziari di origine strutturata, derivati, frutto di ingegneria finanziaria, che hanno emesso i trader delle banche scambiandoseli tra loro come garanzia per ottenere prestiti e spesso rifilandoli al pubblico retail indistinto “: una definizionefondamentale del periodo economico critico che stiamo vivendo.
Termini come ‘tossico’, esprimono un bisogno di trasparenza e pulizia degli strumenti di credito, per ottenere culturalmente parlando un quadro reale, unito agli avvenimenti legislativi del novecento e dei primi dieci anni del nuovo secolo.
Ci ha pensato Camillo Calzolari, cavaliere di Gran Croce ed esperto di credito, presidente del Comitato promotore della Banca Europea per le Imprese e le professioni, con il volume ” Viaggio nel mondo Bancario e Finanziario Europeo – Profili per la costituzione di un Istituto di Credito “, editore Giannini; unendo le vicende che hanno permeato il percorso di progresso di tutta una società, con l’acquisizione dei dati normativi comunitari, e arrivando a strutturare lo schema futuribile, che attende la necessaria pubblicazione di un testo di programma, al passo con le indicazioni comunitarie europee, e vicino, sia come linguaggio che come regole, al cittadino.
Scopriremo così, che i titoli tossici sono dei certificati di credito derivanti da mutui e prestiti sub-prime venduti dalle Banche ai clienti come una sorta di fondi di investimento, che si sono poi rivelati fallimentari per non aver tenuto conto dei rischi a cui venivano sottoposti, da parte di operatori e agenzie.
Sono informazioni note ma, come dice Francesco de Simone nella sua prefazione, vanno riordinate soprattutto per gli addetti ai lavori, avendo essi bisogno di una situazione “rieducativa”.
Un particolare riferimento va in tal senso, ai dati normativi che dovrebbero disciplinare gli strumenti di credito in maniera rigorosa, e che invece sono sottesi ad altre esigenze, pur costituendo l’unico strumento di “qualità“.
Il cittadino, che al nascere dell’Economia, vide prospettare al suo orizzonte gli strumenti della finanza come mezzi di riscatto e libertà dai vincoli del passato, se li ritrova alla fine del novecento come un grave spesso insostenibile. Dopo aver letto la fervida descrizione delle organizzazioni bancarie europee, il lettore non può non pervenire ad un’idea primordiale di positività dell’economia e delle stesse Banche viste come Enti che in continuo ricevono dall’ esperienza, nel bene e nel male, gli indicatori o parametri di output, da riutilizzare nell’input di una Banca moderna e meglio organizzata.
L’autore, nominato Cavaliere di Gran Croce dal Presidente della Repubblica nel 1990 per la sua dedizione e competenza, inizia dal baratto; per giungere poi alla lira e all’euro, sottolineando che tutte le trasformazioni sono valse nel tempo per aumentare la percezione vincente del prodotto come garanzia di “sicurezza”.
Interessante come interfaccia di confronto, è il paragrafo dedicato alla “Banca del Mezzogiorno”, figlia di una finanziaria del 2006 che in questi giorni si ridefinisce per essere applicata, nell’auspicio ribadito dal Ministro Giulio Tremonti di non somigliare minimamente agli antichi “carrozzoni” che hanno imposto allo Stato finanziamenti che non trovavano l’opportuna canalizzazione applicativa, costituendo alla fine componente indelebile del deficit.
Lo Stato rivestirebbe in questo caso solo i panni di “socio fondatore”, per poi farsi da parte ed esplicare unicamente ruoli di facility per l’iniziativa dei privati, che poi convergeranno nella rappresentazione finale organizzata dell’Istituto.
In definitiva il lavoro minuzioso dell’autore finisce per costituire una carta di identità per l’economia del futuro, e per questo la dedica in calce incisa all’inizio del libro, andrebbe letta dopo, perché le parole di Rabindranath Tagore ” Io dormivo e sognavo che la vita non era che un sogno. Mi svegliai ed ho visto che la vita non era che servizio.
Ho servito e mi sono accorto che i denaro era la gioia “, esprimono un malizioso ma ineccepibile concetto di soddisfazione, legato alla conformità del servizio umano alle regole scritte per l’esercizio professionale dello strumento finanziario: se male adoperato costituirà l’inizio dei periodi delle “scialuppe di salvataggio”, ma se ben costruito può edificare il connubio tra coscienza storica e prospettive moderne di una economia avanzata perché al passo con il cittadino.

Bruno Russo
 
Bruno Russo- LE DUE NAPOLI
L’uscita recente del volume “Le due Napoli. Scritti di Domenico Pizzuti. Un gesuita sociologo “, editore Giannini, con l’introduzione e cura di Lucio Pirillo; verticalizza l’attenzione con l’analisi del processo storico che ha portato all’assetto sociale partenopeo odierno, attraverso il sentire di uno scrittore che converge in un solo profilo umano tre caratteristiche: essere un gesuita, nonché un cittadino di frontiera perché vive a Scampia e infine essere docente emerito di sociologia, presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, dopo la sua direzione scientifica dell’Osservatorio sulla camorra e sull’illegalità del Corriere del Mezzogiorno.
Era ovvio che nel suo laboratorio di monitoraggio attento sulla metamorfosi di una città, la stessa venisse scomposta; sulla falsariga del passo famoso del “De Civitate Dei” di S. Agostino: da un lato la realtà che noi tutti conosciamo incancrenita nei secoli, e dall’altra l’aspetto intellettuale alla continua ricerca dei suoi valori di eccellenza per migliorare. Nella salsa scontata dell’inefficienza della classe politica nel curare l’urbe, si dipanano gli ingredienti dei suoi scritti più “tipici”, differenziandoli in sei sezioni, rispettivamente facenti capo a politica, camorra, rom, Chiesa, Scampia e i cosiddetti “Bollettini di Vigilanza Civile”. Il tutto nel segno di una continuità storica tra la Napoli degli anni 30 e quella di oggi, partendo per l’appunto da un periodo, che i filosofi nichilisti del’anteguerra come Jean Paul Sartre seppero guardare con attenzione e fotografare in maniera realista.
Si ergono dalle sue parole le immagini sbigottite quasi ,di due personaggi immersi nella situazione sociale formatasi nel tempo: l’uomo saccente e tranquillo emblema di una stagione politica derivata da un governare molto personalistico, e l’uomo impaurito e meravigliato che segue impotente il dinamico evolversi delle emergenze, dalla monnezza alla camorrra. Dalla sua “borghesia camorristica” al “Cristo degli spacciatori” del quartiere Scampia, il percorso è breve, definendo i limiti di esistenza del malaffare e dell’imperante recupero sociale, che diviene il primo lavoro integerrimo all’interno del proprio ambiente. Interessante a tal riguarda è soprattutto la raffigurazione del Cardinale Crescenzio Sepe, visto come un vero e proprio “attore del sociale” senza passare inosservato, ovvero un protagonista della scena pubblica della città che interpreta i bisogni e le lacune di un popolo dispostissimo ad ascoltarlo attraverso la presenza e la comunicazione nei luoghi di cultura, di incontro e di scambio dialettale, comprese le nuove tecnologie dei social network.
Ne traspare non tanto l’attaccamento estenuante all’etica pubblica dell’autore, ma la ricerca continua del modo per promuovere il sorriso partecipativo alla vita, dei ceti meno privilegiati, che costituisce uno dei requisiti necessari da ridefinire, per ricomporre quel senso della cittadinanza all’alba avanzata del terzo millennio, che si perde ogni giorno sempre di più, come sottolineato anche dalla nota di riflessione in calce al libro, del Procuratore della Repubblica di Salerno, Franco Roberti.
324 pagine per una finalità precisa: raccontare Napoli in tutte le sue essenze per comprenderla di più; innamorarsi della città e soprattutto delle sue deficienze, sapendo separare chi si crogiola nelle sue spigolature discutibili e chi lavora per superare la frontiera delle varie invivibilità, lunga la quale Domenico Pizzuti vive, si muove e racconta.
Il volume è stato presentato al Circolo Cannottieri di Napoli, insieme agli interventi di Franco Roberti e Lucio Pirillo; ha moderato l’incontro Alfonso Ruffo.



BRUNO RUSSO
 
Pietro di Loreto- ANDREA DE LIONE INSIGNE BATTAGLISTA E MAESTRO DI SCENE BUCOLICHE
Il libro di Achille della Ragione restituisce ad Andrea De Lione la giusta collocazione nel panorama artistico napoletano del Seicento e lo pone alla pari del suo maestro Aniello Falcone, sotto il cui nome sono passate a lungo le sue battaglie.
Insigne battaglista, ma anche maestro di scene bucoliche, come lo definì Soria, ispirato agli esempi del Castiglione e del Poussin ed in grado di realizzare composizioni dai colori brillanti e dal vivace dinamismo.
Al Grechetto va ricondotta l’atmosfera preziosa e delicata in cui sono campiti e messi insieme i colori, inseguendo un gusto raffinato, mentre al francese si deve l’impostazione classica e severamente di profilo dei volti, oltre all’impaginazione ed al paesaggio idealizzato degli sfondi.
Un capitolo importante è costituito dai dipinti con soggetti diversi dalle battaglie e dalle scene bucoliche, dove viene discussa, al fianco di quadri famosi come il Ritratto di Masaniello, la controversa ipotesi del De Lione pittore di natura morta, aggiungendo altri tasselli e nuovi elementi per dirimere la questione.
Il capitolo degli affreschi, anche se poco noto alla critica, non è trascurabile ed è ormai certo che egli fu a capo di una fiorente bottega con numerosi collaboratori, i cui nomi ci vengono restituiti dalle polizze di pagamento e fu attivo, oltre che nel Palazzo Reale, dove alcuni scompartimenti tradizionalmente assegnati al Corenzio vanno restituiti ad Andrea ed al fratello Onofrio, nei principali edifici sacri della città da S. Maria la Nova a San Paolo Maggiore ed al Duomo, senza considerare gli affreschi in dimore private ancora tutti da identificare sulla guida dei documenti.
Anche la grafica costituisce un settore al quale l’artista si dedicò con impegno e sono numerosi i fogli commentati, quasi tutti inediti.
Vi è infine una trattazione completa della figura del fratello Onofrio, a lungo collaboratore di Andrea nel settore delle decorazioni.
Vengono pubblicati vari documenti di pagamento, che hanno meglio delineato i termini cronologici della sua attività, permettendo una più precisa ricostruzione degli influssi esercitati sul suo stile dall’ambiente artistico circostante.
Concludono l’opera una corposa bibliografia con oltre 200 titoli, tra i quali vengono segnalati i più significativi ed una serie di tavole per un totale di circa 215 immagini.

Pietro Di Loreto



 
Bruno Russo- [ CULTURA ] - SEI STORIE UN BOCCONE ( da "Il Denaro" del 02/07/2011 pag. 43 )
L’appuntamento di Librinredazione, di giovedì 30 giugno, dedicato alla presentazione di “ Sei storie in un boccone”, ( edizioni Isola dei ragazzi), ha permesso di ascoltare alcuni consigli essenziali volti al benessere psicofisico legato all’acquisizione del cibo; presenti le autrici Tiziana Beato e Carolina Ciacci., e la testimonial Annamaria Colao, ordinario di endocrinologia e oncologia molecolare alla Federico II, e considerata tra i cento migliori scenziati del mondo; nonché da Ermanno Corsi che come sempre, ha saputo pennellare l’argomento con incisi ironici e dotti. Siamo quello che mangiamo? Oppure abbiamo un approccio con il cibo senza tenere conto che esso non è solo nutrimento del fisico ma anche dello spirito? Amare, prima o dopo aver mangiato? quesito posto da Ermanno Corsi alla fine dell’incontro.
In particolare, Carolina Ciacci, ha posto in rassegna gli interessanti distinguo che caratterizzano l’allergia e l’intolleranza conseguente all’assunzione di determinati cibi, mentre Tiziana Beato ha sottolineato gli aspetti psicologici ed emozionali che si interfacciano con il cibo e che spesso dipendono dalla nostra persona. Annamaria Colao, infine, ha esposto una serie di consigli per non trascurare gli accumuli di grasso che avvengono al di sotto dell’ombelico e che sono causa di molte malattie. Interessante è il riscontro che tra tante diete utili o meno, sicuramente l’innamorarsi è decisamente vincente.
Dopo la registrazione è stato offerto un rinfresco biologico curato gentilmente da Anhelo cafè; come il profumatissimo te e le gustose confetture di verdure biologiche.

Bruno Russo
 

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