Rannichiata nel sottoscala di una vecchia dimora prospiciente al Corso Vittorio Emanele, una nonna tremava stretta dal freddo mentre due metri più in là, le sue figlie costituivano un’unica confettura da tenere relegata nello sgabuzzino, serrato a dovere, il tempo necessario per schivare la follia della fuga dei tedeschi che al loro passaggio prendevano le più belle ragazze per scudo o per portarsele con loro. Alcuni quartieri di Napoli furono interessati da questa ed altre razzie, nella disperazione del militare che inizia a capire che ha lottato e ucciso inutilmente, per valori mai risultati vittoriosi, non importa se per la codardia di un alleato diviso o per la pazzia di un leader. Così fuggono, come topi rincorsi da altri topi, strisciando sotto i tetti, con l’occhio divelto dell’animale che fugge la mattanza, schiva il macello e divora ogni nemico, portandosi con sé, nell’immagine della bellezza che non si può non rapire, la nostra bellezza. La fotografia più tetra della fine della II guerra mondiale è questa, così come raccontata ai loro figli o nipoti, da coloro che l’hanno vissuta in prima serata, sulla propria pelle. La disperazione della sconfitta è anche peggiore di questa, perché i Napoletani nel vedere tali immagini non gioivano, ma riflettevano perplessi, meditavano. Il tatto dell’abitudine, la sensibilità della sottomissione, poneva un popolo da sempre sotto altrui vessilli, nell’attesa di un altro dominatore: l’opportuno arrivo degli alleati, il braccio calato dal cielo per alzare i sofferenti verso la luce, fu anche la liberazione dalla libertà, ovvero dalla possibilità di essere liberi di un futuro senza uno stampo o una egida. Amare l’America non è cosa difficile, ma oggi parliamo di U.S.A. mentre allora si chiamava America, e nel gergo nostrano, trovare l’America, significava ricchezza, fortuna, tutto ciò che poteva essere soluzione per un male, brillando come stelle separate da strisce luccicanti. Siamo con loro, consanguinei di una emigrazione che ha aperto nuove finestre su un mondo oscuro , come a tappe è stato il nostro suolo europeo sotto l’influenza di interessi e poteri, che la storia non ha finito di descrivere. La nostra destinazione invece, è proseguita per essere dipendente da qualcuno o qualcosa, frapponendo tra il riso amaro e il rock, la possibilità sprecata di coniugare una parola diversa da “ora e sempre resistenza” che ha invaso il futuro. L’Ammerica con due emme, era il paradiso artificiale dei nostri sogni non sospetti. In un mio viaggio di ritorno dagli Stati Uniti, un italoamericano si mostrava visibilmente emozionato: tornava nella sua Italia, che non vedeva da più di 55 anni! ero più io che descrivevo la sua patria che lui a ricordarsela, avvolti nelle poltrone di un magico volo della Delta Airlaines. Mi sovvenne ad un tratto di chiedergli cosa sapeva dell’Italia, cosa immaginava fosse successo in tutti questi anni, ma lui non sapeva nulla, non gli interessava niente. Poi, convinto che io non fossi convinto, prese una foto sbiadita dal suo portafoglio e me la diede, dicendo che era l’unica e l’ultima immagine che aveva portato in America. Era Benito Mussolini, impettoruto e con il suo sguardo scavato e bollente. Io gli chiesi se era un nostalgico o un suo conoscente; ma non era nulla di tutto questo; aveva solo fermato il tempo, aveva immobilizzato la storia in una cartolina, per entrare in un’altra dimensione, in una realtà diversa. La sua versione delle cose mi lasciava stupito, specialmente quando mi disse con gli occhi lucidi: amo la mia PATRIA , più di ogni altra cosa, ma è come una figlia, certe volte fa male vederla crescere, specialmente se sai che un giorno sarà troppo diversa da te, come gli occhi dei miei amici, ammaliati da sigarette, barre di cioccolato, chewing-gum, come se fosse tutta la loro vita, il futuro, la luce dopo le tenebre, la liberazione dalla libertà di avere l’opportunità di essere per una volta se stessi.
Bruno Russo
Fonte: Bruno Russo